Torniamo a bomba, dopo questo excursus relativo ai diversi
modi di vivere e padroneggiare i propri stati emotivi, sul tema dei temi, come
l’abbiamo chiamato: la felicità.
L’aspetto su cui con questo intervento concentriamo la
nostra attenzione è una sorta di pregiudizio
dove oggi tutti noi siamo, volenti o nolenti, immersi. Il pregiudizio è quello
per cui la felicità sia la condizione naturale
e basilare della vita, ossia che ognuno di noi sperimenti, come base di partenza,
un vissuto di felicità. Le avversità della vita possono poi minare, o
mettere in discussione, questo stato di equilibrio assoluto, ma se non
interviene nulla di esterno a modificarlo possiamo aspettarci di vivere nella
felicità.
Senza voler entrare in aspetti sociologici o addirittura
morali, si tratta di un’aspettativa alimentata dai modelli sociali e collettivi
da cui siamo circondati. Ci si aspetta da noi che siamo efficienti, sul lavoro
come a casa, che sappiamo affrontare le difficoltà senza titubanze o
tentennamenti, che abbiamo sempre il sorriso sulle labbra e alla domanda: “Come
va?” rispondiamo allegri e senza esitare: “Tutto bene”. Anche perché dietro
quella domanda raramente c’è un reale interesse; più spesso si tratta di una
“domanda di circostanza”, una sorta di saluto, o intercalare, divenuto rituale.
La partita della
felicità, se ci fermiamo un attimo a riflettere, è in realtà la più complessa e articolata che si possa pensare,
nella misura in cui mette in gioco, ogni volta, l’intera storia di vita che
ognuno di noi è. Ne mette in gioco il senso complessivo agli occhi di noi
stessi e della collettività alla quale apparteniamo; ma non in termini intellettualistici
o morali, bensì nella concretezza di ciò che di volta in volta sperimentiamo,
dell’immagine che ci siamo costruiti circa noi stessi, della nostra amabilità,
adeguatezza, vitalità, soddisfazione personale rispetto agli obiettivi che ci
siamo dati o ci hanno dato. Non a caso la letteratura, la filosofia, l’arte, il
teatro e tutte le espressioni dell’umana intelligenza sono attraversate da
biografie tormentate e alla perenne ricerca di qualcosa che si insegue a vita e si afferra a tratti.
Sono delle ovvietà, quelle che stiamo dicendo, ma ritengo
opportuno, di tanto in tanto, ripeterle perché attorno al tema dell’accettazione di sé, come abbiamo già
avuto modo di osservare, si gioca una parte fondamentale del proprio benessere,
anche – e soprattutto – nei momenti di difficoltà. Chi sta vivendo un periodo
di crisi, magari profonda, di cui fatica anche a comprendere l’origine, è
opportuno che si dia anzitutto del tempo e non
sia incalzato dall’ossessione di essere l’unico al mondo a vivere una tale
condizione. Come dicevamo poc’anzi, la storia culturale dell’Occidente è
disseminata di biografie tutt’altro che lineari e “felici”. Quasi tutte portano
con sé l’indicazione che la felicità, più
che una condizione “naturale” di partenza, è sempre una conquista da rinnovare
di volta in volta. Magari faticosamente, in rapporto a storie di vita
complesse e a situazioni affettive che non hanno avuto un corso semplice e
lineare. E’ sufficiente guardare le fatiche della quotidianità di chi abbiamo
di più prossimo, per rendercene conto, anche senza scomodare i grandi pensatori
di ogni epoca.
Anzi, a ben guardare,
non esiste storia di vita che non abbia dovuto attraversare le proprie
intemperie, più o meno turbolente. Tant’è che è opinione comune di quasi
tutti gli psichiatri, soprattutto di formazione fenomenologica, esistenzialista
ed ermeneutica, che una vita senza crisi (che etimologicamente significa
scelta, decisione, discernimento) è una idealizzazione neppure troppo
auspicabile.
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