Come abbiamo già avuto modo di osservare, ci sono alcuni
termini su cui è determinante fare chiarezza quando si decide di compiere un
percorso su di sé. Attorno a quei termini, e alle “disposizioni” che inducono,
si giocano infatti partite importanti rispetto al benessere individuale. La
parola su cui quest’oggi concentriamo la nostra attenzione è “accettazione”, contrapposta a “rassegnazione”, con la quale viene
spesso erroneamente equiparata. Si
tratta di un termine fondamentale nella misura in cui designa la possibilità di
“fare pace” con alcuni aspetti di sé con i quali è più difficile convivere e
scendere a patti.
Prendiamo avvio da una celebre citazione di Carl Rogers, uno
dei padri della cosiddetta “psicologia umanistica”. La frase da cui partiamo è
la seguente: “E’ nel momento in cui mi
accetto così come sono che divento capace di cambiare”. Sembra quasi una
contraddizione in termini: accettazione, in una lettura superficiale, suggerisce
infatti una dimensione di stasi, di pausa, quasi di quiete. Rogers la associa
invece al cambiamento e al divenire, come se fosse una pre-condizione del
cambiamento stesso. Ed in effetti, osservando in profondità, non può che essere
così.
Accettare alcuni
aspetti di sé significa infatti “farci i conti”, nel senso di ricondurli alla
propria storia, al modo in cui si sono strutturati nell’esperienza
individuale, nelle relazioni con gli altri, nel proprio modo di vivere
emotivamente gli eventi della vita. Accettarli nel senso di considerarli parte del proprio bagaglio
autobiografico e personale, di riconoscerne l’origine, che è diventata poi,
a piccoli passi, una “lettura emotiva” del mondo anche nell’attualità. Accettare vuol dunque dire anzitutto non combatterli,
non ingaggiare una guerra civile tutta interna a se stessi tra ciò che si prova
e ciò che si vorrebbe o dovrebbe provare.
Ricordo il caso di un professionista che si era rivolto a me
perché non riusciva a parlare in pubblico, neanche nelle riunioni tra colleghi.
Gli prendeva un’ansia tale da iniziare a sudare, se costretto ad intervenire, e
balbettare fino ad andare completamente in confusione. Questo aspetto di sé,
evidentemente molto limitante, lo faceva arrabbiare e demoralizzare al punto tale
da azzerare qualsiasi sua risorsa. Per come la situazione si era costruita,
eravamo di fronte a una sorta di “muro
contro muro” tra l’ansia di esporsi in pubblico e la non-accettazione di questo
aspetto di sé, in cui ad avere la meglio, inevitabilmente, era il
“sintomo”, ossia l’ansia, e la conseguente rabbia, auto-denigrazione,
squalificazione di sé.
Imboccare la strada dell’accettazione significa anzitutto
cercare di capire che cosa è in gioco in quegli episodi: che effetto ha il
giudizio degli altri sulla propria immagine di sé; quanto il diretto
interessato “si permette” di sbagliare; in che circostanze, nella sua storia,
ha subito il giudizio altrui, e da parte di quali figure; che cosa prova (nei
minimi dettagli emotivi e “fisici”) quando commette un errore o pensa di
poterlo commettere… Rendere chiaro tutto questo significa anzitutto “relativizzare” il problema, collocarlo
in una “storia di vita” e nei suoi temi – in questo caso il tema del giudizio.
In seconda battuta significa rendersi conto che il sintomo non è un dato strutturale immodificabile, ma cambia e si
articola in rapporto a tanti fattori, soprattutto di natura relazionale. Lo si può quindi padroneggiare e, in
qualche misura, plasmare in rapporto alle circostanze che si incontrano.
Infine, il sintomo è la punta
dell’iceberg, è l’estrema espressione di una difficoltà che affonda le
proprie radici altrove (nel nostro esempio, in quell’enorme bacino che il senso
comune generalmente indica con il termine “autostima”).
Accettazione è la parola che meglio riassume tutto questo
lavoro preparatorio da cui non può che emergere il cambiamento, proprio nella
misura il cui cambiano i fattori in campo e la relazione tra essi. Siamo dunque
agli antipodi della rassegnazione,
disposizione che, al contrario, esprime al massimo grado uno stato di impotenza
e impossibilità d’azione.
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