Considerando l’interesse che il tema
dell’educazione e del benessere dei figli sta suscitando, oggi aggiungiamo un
altro piccolo tassello al nostro puzzle. Ci occuperemo infatti di quella che
potremmo definire “educazione emotiva”.
Iniziamo da una contestualizzazione
dell’area di pertinenza. Che cosa significa “educazione emotiva”? Sono
moltissime, com’è lecito aspettarsi, le declinazioni attraverso cui si può
intendere questa espressione. Noi concentreremo la nostra attenzione sull’aiuto che un genitore può dare al proprio
figlio circa il mettere a fuoco e il dare nome a ciò che prova. Abbiamo già
avuto modo di dire quanto questo aspetto sia strettamente intrecciato al
benessere personale. Nelle poche righe che seguono cerchiamo di dare qualche
indicazione su come favorire tale capacità.
Partiamo da un dato di fatto. Un
bambino quanto più è piccolo tanto meno ha dimestichezza con il mondo e con sé
stesso. Negli episodi che costituiscono la sua vita agli esordi un bambino
prova una sterminata quantità di emozioni e sensazioni rispetto a esperienze
nuove che rappresentano i suoi primi contatti con in mondo esterno e con sé
stesso. E’ comprensibile, quindi, che
sia disorientato nel cercare di mettere ordine, e successivamente dare un nome,
a ciò che gli accade.
Alcune
esperienze, in particolare, saranno molto perturbanti. Pensiamo alle prime,
intense, esperienze di paura, o di rabbia, o alla sensazione di essere
abbandonato, nei distacchi dalle figure di riferimento. Viceversa, pensiamo al piacevole
calore percepito nell’abbraccio di mamma e di papà, alla loro vicinanza in
momenti di difficoltà. O, rispetto a sensazioni più elementari, pensiamo al
gusto e disgusto rispetto al cibo, nelle sue infinite varietà, o al dolore per
un piccolo infortunio, e via dicendo. Nei
primi anni di vita il bambino struttura il suo mondo interiore lungo molte
dimensioni, la più elementare delle quali è il piacere contrapposto al
dispiacere. Come aiutarlo in questo
complesso e articolato compito?
La risposta è tanto semplice da dire
quanto difficile da realizzare: accompagnarlo.
Il che significa aiutarlo con delle
domande molto semplici, alla sua portata, circa quello che sta vivendo e
gli sta capitando. Osservare ciò che gli
accade nel contatto con il mondo esterno e insegnargli pian piano ad associarlo
agli stati emotivi che vive.
Ti piace il gelato? Che gusto
preferisci? Ti va di prenderne uno per merenda? Oppure, sul versante opposto,
riferendoci ad un episodio spiacevole come la classica caduta dalla bicicletta:
ti fa male? Tanto? Dove? Ma senti bruciare o picchiare? E adesso hai un po’ di
paura a risalire in sella? Affrontiamola insieme…
Domande elementari che aiutano il
bambino anzitutto a focalizzare
l’attenzione su di sé e su ciò che è accaduto. In seconda battuta costruiscono una relazione, un modo di
stare insieme partecipe ed attento. Infine permettono
di costruire e differenziare, nel bambino stesso, un mondo emotivo interno
che si articolerà in modo sempre più preciso e dettagliato. Alle domande, infatti,
faranno poi seguito anche le spiegazioni fornite dai genitori, che daranno
nuove parole e quindi la possibilità di una discriminazione sempre più precisa
e dettagliata di ciò che è accaduto nel mondo esterno e in quello interno.
Tutto questo è reso ancor più
semplice e immediato in un clima e
linguaggio familiare in cui non si ha paura di vivere le emozioni e di parlarne.
Fino a due o tre generazioni fa i nostri nonni erano molto restii a manifestare
le proprie emozioni, sia che si trattasse di amore (“Carezze
e baci vanno dati ai bambini solo quando dormono”, era una frequente
raccomandazione), sia che si trattasse di dolore (farsi veder piangere era
quasi un’umiliazione). E i bambini, coerentemente, imparavano presto, a loro
volta, a non esprimere ciò che provavano e a non dargli valore.
Ora che è più chiaro anche al senso
comune il ruolo che una certa educazione e consapevolezza emotiva può avere nel
rendere più semplice, oltre che più chiara, la vita c’è fortunatamente una
diversa attenzione all’universo delle emozioni.
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