Nel nostro appuntamento odierno tenteremo
di dare qualche indicazione operativa, necessariamente molto generica, su come creare quella vicinanza attenta e
sollecita (in caso di bisogno) di un genitore verso il proprio figlio che
costituirà poi la base della sicurezza dell’uomo che verrà.
La prima indicazione,
talmente banale da essere scontata, è di passare tempo con vostro figlio.
Per avere la possibilità di costruire un rapporto solido e profondo bisogna anzitutto
avere tempo da vivere insieme. Mi capita spesso di sentire da parte dei
genitori questa sorta di ritornello: “L’importante non è la quantità ma la
qualità del tempo passato insieme”. Posizione assolutamente condivisibile, però
all’interno di un range che garantisca la possibilità di instaurare un
rapporto, ossia di avere esperienze
compiute e da compiere insieme, da pensare, progettare, realizzare, per poi
condividerle con gli altri. Se non c’è questa condizione minima di
esperienze da costruire insieme e condividere non può esistere un rapporto
profondo.
Ma come si costruisce
un buon rapporto? Io direi, anzitutto, con attenzione. Un’attenzione amorevole e aperta, che permetta di
vedere le cose quasi come se foste nei panni di vostro figlio, dal suo punto di
vista. Si tratta di un’indicazione talmente importate che sarebbe prezioso
portarla in qualsiasi relazione, anche tra adulti. Significa vedere che cosa
vostro figlio ha voglia di fare con voi, quando si è stancato di svolgere
un’attività e perché, o quanto gli costa, ad esempio, fare i compiti in un
pomeriggio di sole. Tutto questo non
per andargli immediatamente in soccorso alla minima difficoltà (ricordiamoci
delle indicazioni di Bowlby: non spianate la strada ai vostri figli), ma per essere consapevoli di quello che sta
succedendo in lui e decidere il dafarsi, da genitore.
E’ importante qui osservare che mettersi nei panni di vostro
figlio non significa permettergli incondizionatamente di fare ciò che vuole, ma
semplicemente sapere, da genitori, ciò che la situazione o la richiesta in
corso comporta per lui. Poi sarete
sempre voi a decidere, ma con una preziosa informazione in più: come sta vostro
figlio nella situazione che state condividendo.
Questa disposizione significa, pragmaticamente, fare più domande, e soprattutto domande sul
piano emotivo. Come stai? Sei stanco? Ti stai divertendo? Fai fatica? Ti
annoia questo gioco? Sei contento? Ti rattrista non poter vedere i tuoi amici?
E’ impegnativo fare i compiti oggi? E’ un modo anche per aiutare vostro figlio ad articolare in modo più completo il suo vissuto
e diventare pian piano più competente nel sapere ciò che prova e nel padroneggiarlo.
Una domanda fatta con
attenzione vale più di dieci consigli. Soprattutto se compiuta con la
tonalità giusta, non in tono intimidatorio o accusatorio ma empatico. Ciò che
deve passare è, appunto, l’attenzione. Sono
anzitutto attento a te, a ciò che fai e a come stai. Poi ci sarà modo di
consigliare e anche rimproverare, quando al genitore sarà chiaro ciò che ha
mosso il proprio figlio e che cosa gli è successo. E se si tratta di un
legittimo rimprovero – come osservavamo la volta scorsa – il focus deve essere sull’episodio, non sulla persona. “Hai fatto
una stupidaggine”, non “Sei uno stupido”.
Tutto questo ci permette anche di avere una chiave di
lettura in più nelle situazioni in cui il dialogo, tra genitori e figli, è
diventato difficile. Mi capita spesso di ascoltare genitori che lamentano la
scarsa apertura dei figli al dialogo, ossia figli che non raccontano nulla di
loro. In queste circostanze, più che dare la colpa all’una o all’altra parte, è
importante prendersi cura della
relazione, ossia osservare come ci si rapporta gli uni verso gli altri, con
che modi, che toni, con quali intenti e mossi da quali sentimenti. Riuscire a creare un terreno comune in cui
è possibile esprimersi e sentirsi capiti, prima di
qualsiasi consiglio, giudizio o rimprovero, è il primo passo verso un dialogo
nuovo, più vicino al benessere di tutti.
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