Nell’ultimo intervento, parlando
dell’evitamento, abbiamo fatto riferimento ad un aspetto talmente importante
della dinamica psichica che richiederebbe un libro intero: l’autoinganno. Proviamo qui ad osservarne alcuni aspetti, i più
macroscopici, bypassando intenzionalmente tutti i corollari “tecnici” e le
differenze con cui le diverse tradizioni di ricerca psicologica ne hanno
trattato.
Autoinganno, etimologicamente,
non ha bisogno di ulteriori spiegazioni: è
il modo attraverso cui ci inganniamo in rapporto alle reali motivazioni che ci
spingono ad agire come agiamo o in rapporto all’effetto che hanno su di noi
alcuni eventi. Nell’immaginario del senso comune si tratta di un fenomeno
marginale, che riguarda solo alcune persone e particolari momenti di vita. In realtà noi tutti ci inganniamo, e lo
facciamo così frequentemente e convintamente da non rendercene neppure conto
(com’è ovvio che sia, altrimenti che inganno sarebbe!?).
Parto da un esempio, come sempre,
per rendere più chiaro ciò che intendo dire. E’ un esempio molto semplice, che
ha a che fare con la quotidianità più spicciola, proprio per far intendere
quanto sia pervasivo e universale questo meccanismo.
Nel corso di una seduta con una
paziente, che chiameremo Sabina, ci siamo trovati a parlare di un episodio
all’apparenza marginale e del tutto secondario rispetto al suo malessere e ai
suoi “temi”. Mi ha raccontato di quanto fosse stata contenta, la sera prima, di
non essere dovuta andare ad un concerto al quale erano invece andate parecchie
sue amiche. Ha argomentato a lungo (dopo aver specificato quanto fosse per lei
insignificante quell’episodio), sulla palese mediocrità di quel gruppo musicale
e sulla piacevolezza della serata che invece era riuscita a costruirsi, stando
semplicemente in casa a leggere e guardare la televisione. Racconto arricchito
da una serie di riflessioni “etiche” sull’importanza di non dipendere dagli
altri nella gestione del proprio tempo libero e dei propri interessi.
Io che ascoltavo dall’esterno
tutto questo non potevo che concordare, ma mi chiedevo perché Sabrina dedicasse
un’intera seduta a un episodio che ai suoi occhi non aveva alcuna rilevanza.
Perché parlarne se non era importante? Si sentiva, inoltre, un particolare trasporto nel suo argomentare e nel tono della sua voce, a
tratti quasi un sottile filo di rabbia. Mi sono permesso di osservare con
Sabrina questi aspetti all’apparenza marginali e lentamente si è dischiuso un
mondo. E’ stata decisiva, per comprendere ciò che stava accadendo, una sua
espressione uscita di getto, quasi senza controllo: “Sì, perché le mie amiche
non mi invitano mai quando fanno qualcosa di diverso”.
Da lì tutto ha preso una luce
diversa agli occhi di Sabrina: era arrabbiata e addolorata perché non era stata
coinvolta. Questo aspetto usciva dal tono di voce, dalla postura del corpo
mentre raccontava, dall’incedere delle argomentazioni. Ma lei non se la
raccontava così, anche perché l’essere rifiutata o abbandonata era una delle
sue paure più forti e di fronte a un seppur piccolo episodio che poteva
rimandarle questo tipo di messaggio, mobilitava inconsapevolmente tutte le sue
migliori energie per allontanare quello spettro. E’ molto più gestibile
raccontarsi che, in fondo, è stato meglio non dover andare a un concerto
mediocre piuttosto che sentire il dolore e la rabbia di un, seppur piccolo,
rifiuto.
Ciò che qui osserviamo è costantemente all’opera nel modo in cui noi
tutti interpretiamo ciò che ci accade. In fondo, tra le istanze più potenti
che ci guidano figurano sempre l’evitamento del dolore e della paura, da una
parte, e la salvaguardia della nostra autostima, dall’altra. L’autoinganno è
funzionale ad entrambi, per questo è così potente e pervasivo.
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